Se dovessi descrivere la parola ‘discriminazione’, e ciò che tale parola implica, la prima espressione che mi verrebbe in mente è “c’è sempre il sud di qualcunə”. Mi spiego: nascere donna, mediamente benestante, bianca e occidentale non mi qualifica certamente come un soggetto particolarmente marginalizzato né come un soggetto propriamente subalterno. Eppure.
Eppure, C’è Sempre il Sud di Qualcunə, CSSQ. E, talvolta, capita che quel qualcunə sia tu.
Perché è vero che nascere donna, benestante, bianca e occidentale non mi rende immediatamente identificabile con categorie economiche ed etniche sicuramente più vulnerabili e quotidianamente esposte a discriminazioni, però è anche vero che ci sono un qual certo numero di variabili cui appellarsi se si volesse trovare un pretesto per discriminarmi (non lo si trova sempre, in fin dei conti?).
Il primo offuscato ricordo di discriminazione che ho risale al lontano 1997, anno in cui la mia famiglia decise di fare le valigie e trasferirsi in Inghilterra per fare quello che ha sempre spinto molti dei flussi migratori: cercare alternative socioeconomiche migliori di quelle offerte dal proprio paese natale. Né mio padre né mia madre sopportavano il cialtronismo catto-italico, ed entrambi avevano vissuto a lungo all’estero. Non mi avrebbero cresciuto in Italia: “no, non nostra figlia”, si ripetevano. Ed ecco dunque che Silvia, alla tenera età di quattro anni si trovò immersa in un contesto culturale completamente nuovo, estraneo, alieno. Sicuramente non vivevamo nei quartieri benestanti inglesi, ma i miei trovarono casa in un zona working class a Nord di Londra: niente banlieue, ma nemmeno i Parioli della perfida Albione. Mi ritrovai così a dover avere a che fare con dei giochi, dei bambini e delle bambine, e un contesto sociale a me sconosciuto. Almeno l’inglese per fortuna lo parlavo, in quanto mia madre mi aveva cresciuta a forza di latte e Magic English.
Eppure. Eppure CSSQ - e in quel caso, ero io.
La bambina bianca, benestante e tendenzialmente socievole fu al centro di innumerevoli ‘prese in giro’, esclusioni dai gruppi di gioco (“Can I play?”, “No, you can’t”, “But why?”, “Because you can’t”). E pensare che venivo esclusa in modo trasversale, indipendente dalla classe e dall’etnia del discriminantə, che spesso erano figli di gente umile, anche nera o asiatica. Non c’era un reale motivo, o almeno quest’ultimo non era mai verbalizzato o esplicitato, ma il fatto che fossi diversa, che non mi sapessi esprimere come gli altri, che fossi quella ‘nuova’, mi rese comunque un soggetto marginalizzato. Ricordo di essermi inizialmente arrangiata a giocare da sola con i miei dinosauri, in un angolo della classe. Questo durò poco, poiché poi alla diversità ci si abitua, quando te la ritrovi davanti tutti i giorni. Pian piano il fatto che fossi immigrata di prima generazione, un’italiana con un inglese dall’accento un po’ strano, non sembrò poi così la fine del mondo. E alla fine un paio di persone mi si avvicinarono, e diventammo amici, e tutto stava diventando ‘normale’ quando per circostanze esterne fummo costretti a tornare in Italia, e a rimanerci. Il processo di reintegrazione in Italia ricominciò da capo - perché questi bambini non conoscevano Thomas & Friends? E perché quando menzionavo Barney nessuno mi capiva? Ma qui comincia un’altra storia, e con molte poche discriminazioni per fortuna.
Il secondo episodio di discriminazione avvenne molti anni dopo, e qui mi discosto dal mantra CSSQ. Anche in questo caso non so se si possa definire discriminazione diretta, ma indubbiamente fu un episodio (uno dei tanti, ma forse il più evidente) in cui il mio sesso (F) giocò un ruolo fondamentale. L’episodio in questione fu il primo vero e proprio momento di realizzazione in cui fu proprio il mio sesso a farmi prendere atto che essere donna era, è, e ad oggi rimane una discriminante a priori. Durante il triennio all'università ebbi ‘l’onore’ di essere al centro delle attenzioni di un mio professore che stimavo, e intellettualmente ancora stimo, moltissimo. Feci l’errore di aggiungerlo su Facebook per seguire le sue pubblicazioni e interessanti interventi che sponsorizzava lì (piccolo inciso su come la frase precedente sia sintomatica di come le donne tendano spesso a giustificarsi, replicando un atteggiamento colpevolizzante). Dunque, lo aggiunsi su Facebook a fini puramente intellettuali e accademici, ma pochi minuti dopo ricevetti un messaggio dal suddetto in vena ‘small talk’, in cui mi chiedeva come stessi e a che ciclo di studi fossi ora. Queste semplici domande mi apparvero segno di un genuino interesse, e, onestamente, che un professore che tanto stimavo si ricordasse di me mi fece anche piacere. Eppure.
Eppure poi si passò a velati e non richiesti complimenti. Siccome ero alla fine della triennale, ero anche nella fase in cui cercavo di capire come e dove proseguire il mio percorso di studi. L’Italia e l’accademia italiana con il suo modus operandi estremamente gerarchico cominciavano a starmi strette, dopo aver vissuto il clima Erasmus; e fu così che confidai queste mie incertezze al suddetto Professore. Egli mi rassicurò, dicendo che avrei scelto bene, poiché avevo sempre avuto ‘una certa tensione intellettuale’. Lì cominciai a sentirmi a disagio, ad avere l’impressione che le sue parole eccedessero il mero interesse intellettuale e avessero fini ben più ammalianti. All’epoca avevo 22 anni, lui 53. Mi disse che, una volta finito di studiare, avremmo potuto fare anche una chiacchierata vera. Per carità, fu gentile a specificare che i miei studi dovessero essere terminati, ma è proprio quella sottigliezza che parzialmente mi nausea tutt’oggi. “Non creda di essere passata inosservata”, mi disse e confidò addirittura di avermi riservato un soprannome personale che si guardò bene dal comunicare in chat, offrendosi piuttosto di rivelarlo di persona e soprattutto di fronte a “qualcosa di buono”, siccome in chat è così facile fraintendersi...
La conversazione si spense con un senso di generale imbarazzo, vergogna e senso di colpa per aver dato possibili segni di fraintendimento al Professore, implicando in qualche modo che potessi essere interessata a incontrarlo in questo contesto ‘altro’ ma non meglio definito.
Non si voglia assumere a priori che i rapporti tra alunnə e professorə non possano andare oltre la mera accademia, ovviamente se consenzienti, ma c’è da interrogarsi sulla correttezza di tali scambi con una studentessa ancora immatricolata, che si potrebbe avere come laureanda in commissione (le possibilità, seppur minime, non erano inesistenti). Non risulta squilibrato il rapporto di potere in uno scambio come quello sopra descritto? Non è anche questa una forma di discriminazione? La discriminazione subentra dal momento in cui, se ponessi la stessa domanda a un campione di colleghi maschi immatricolati all’università, non credo che moltissimi direbbero di aver vissuto un’esperienza simile, in cui il loro sesso abbia in qualche modo compromesso la propria esperienza universitaria. Ovviamente, ciò non significa che non avvenga che una professoressa (o una donna che sia in una condizione di potere) sfrutti la sua posizione per scopi ‘altri’, ma c’è ragione di credere che la percentuale di colleghe femmine che affermerà di aver avuto esperienze simili alla mia (che è comunque abbastanza ‘sottile’ e ‘innocua’), è ben più alta dei miei colleghi. Ovviamente non vi è da mettere in dubbio che vi siano anche situazioni per le quali sono le studentesse e gli studenti stessə ad assumere atteggiamenti che dimostrino interesse oltre il mero contesto istituzionale. A tal proposito, esiste anche una pratica guida su WikiHow per questi propositi. E la discriminazione sta nell’essere donna, tutto lì. Essere di sesso femminile ancora oggi espone a una serie di discriminazioni che in quanto uomo non si immagina nemmeno possano accadere. È ovvio che anche il sesso maschile sia soggetto a discriminazione, e qui si torna al motto CSSQ per cui i fattori discriminanti sono eterogenei e soggetti a contestualizzazioni specifiche, ma non si può negare quanto la società sia ancora sbilanciata in tal senso. Facendo una banale ricerca su google, risulta difficile rintracciare articoli in cui le vittime di molestie siano studenti di sesso maschile molestati da docenti donne. Cfr. De Gregorio et al., “Molestie, quello che le Università non dicono. Nomi e numeri per denunciare”, Corriere della Sera, https://27esimaora.corriere.it/20_dicembre_10/molestie-quello-che-universita-non-dicono-ecco-nomi-numeri-denunciare-1c01a136-3a2f-11eb-bd0f-1c432ae6dd98.shtml.
Questi, seppur differenti sono due episodi di discriminazione avvenuti nell’arco di 22 anni di vita; episodi comuni e fin troppo diffusi, ma che fortunatamente in questi casi non hanno mai superato il limite e dove la violenza (psicologica e fisica) non è mai davvero entrata in gioco. Eppure gettano luce su quanto sebbene ci si possa sentire soggettə privilegiatə, si potrà sempre essere soggettə discriminatə, perché la possibilità di essere il Sud di Qualcuno sottende le nostre esistenze: perché la cittadinanza italiana non equivale a quella inglese, perché essere donna non equivale ad essere uomo, perché non è vero che si parte tuttə dalla stessa linea di partenza e che grazie ai propri meriti e al proprio impegno si possono raggiungere gli agognati obiettivi.
Ci sarà sempre qualcunə che, per fattori di casualità nascerà in un paese con più opportunità del proprio, con mezzi economici migliori, il sesso e i gusti sessuali ‘giusti’ e il colore della pelle di una sfumatura più chiara del proprio. Tuttə siamo discriminantə e discriminatə almeno una volta nella vita, e qui risiede la lezione che come individui bisognerebbe imparare: siccome ognunə è soggettə a determinate vulnerabilità, tanto vale prenderne atto e tendere una mano a coloro che partono da una condizione meno privilegiata della propria, perché un giorno, quellə che potrebbero aver bisogno di una mano amica potremmo essere noi.
Silvia Vari
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