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Immagine del redattoreFederica Biffi

Coltivare il dubbio: la sospensione del giudizio come forma mentis

Qualche tempo fa guardavo un Ted talk sull’importanza di scegliere le parole, dal titolo Il potere delle parole giuste di Vera Gheno, una sociolinguista che affronta argomenti inerenti alla comunicazione. Quello a cui voglio arrivare si discosta leggermente dal tema centrale, pur essendo collegato: si riferisce alla premessa sottintesa, ovvero, l’atteggiamento che ci permette di scegliere cosa dire, cosa fare, come agire.


Le parole che pronunciamo formano la realtà e, allo stesso tempo, definiscono ciò che siamo noi; esse rimangono e contribuiscono alla formazione del mondo esterno dal momento in cui escono da noi stessə. A seconda del contesto, della forza con cui le pronunciamo, dell’ordine in cui vengono esperite, l’intento comunicativo può rovesciarsi. Vera Gheno porta l’esempio della parola “negro”: se la dice una persona bianca in senso offensivo nei confronti di una persona afroamericana risulta come un’offesa; ma i rapper afroamericani la usano nei loro testi per autodefinirsi perché è un modo di sottolineare il black power. A ben vedere, neanche una parola come negro può essere stigmatizzata a priori, ma è dipendente dal contesto in cui viene utilizzata.


Vera Gheno, sociolinguista, durante il Ted Talk "Il potere delle parole giuste"


In quest’ottica, è necessario, quindi, conoscere e riflettere: sembra scontato, ma come si fa a scegliere? Che processo bisogna seguire? Nell’ultima parte del monologo la sociolinguista parla della necessità di coltivare il dubbio. Ai nostri giorni, in un mondo pieno di informazione di facile accessibilità, la conoscenza è soltanto apparente. L’unico modo che abbiamo per aumentarla, paradossalmente, è porci costantemente nella condizione di non sapere. Nell’Antica Grecia, Socrate, uno dei più celebri pensatori, si esponeva dicendo di “Sapere di non sapere”, in un momento tanto drammatico della sua vita: quello della sua condanna a morte. Questo rimarrà un concetto cardine del pensiero del filosofo e, a oggi, una concezione più attuale che mai. Nell’Ottocento il poeta romantico John Keats (1795-1821) conia il termine “capacità negativa”: secondo l’autore di Ode a un’urna greca, in cui applica questo atteggiamento di contemplazione, la caratteristica dell’essere umano è quella di poter rimanere sospeso nell’incertezza e nel dubbio, in contrapposizione al bisogno incessante, tipico dell’essere moderno, del conoscere razionale, di possedere la ragione. Negativa perché in contrasto alla necessità ‘positiva’ che, sovente, abbiamo di trovare una soluzione immediata improntata alla soluzione di un problema.



Viviamo in una realtà frammentata in cui ogni affermazione presuppone la verità e l’illusione della conoscenza contamina il nostro modo di pensare. La nozione di informazione si distorce, divenendo una concezione abusata e frivola; le sovrastrutture determinano l’andamento della società. In ogni cosa che facciamo ma, soprattutto, in ogni parola che pronunciamo siamo condizionatə dalla nostra memoria, da preconcetti, pregiudizi e assunzioni che consideriamo vere a prescindere. È quello che si chiama framing, un processo cognitivo che utilizza la mente per ‘risparmiare’ energia: abbiamo come forma mentis degli schemi strutturati che utilizziamo per valutare le situazioni. Quello di cui dovremmo avvalerci è, invece, l’antitesi del pregiudizio: il concetto di epoché, vale a dire in filosofia l’atto di sospensione del giudizio, quello stato mentale, nonché processo cognitivo, secondo cui ci si astiene da dare valutazioni in mancanza di sufficienti elementi per poter giudicare eventi non compatibili con i nostri canoni di interpretazione. Originario dell'antica Grecia, il termine, in tempi recenti, diventa parte della fenomenologia del filosofo Edmund Husserl, di cui tratta ne La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1936).


Ho sempre attraversato il dilemma tra la libertà di dire ciò che vogliamo senza mezzi termini – per la cosiddetta sincerità o la tanto dibattuta libertà d’espressione – e quello di scegliere di dire ciò che è più utile e funzionale ai fini di una conversazione, di un dibattito o di uno scambio di qualunque natura. Ma se la libertà di esprimersi finisce dove inizia a ferire, o giudicare, l’altrə, oggi so che quello che si dice non tanto senza pensare, quanto senza interrogarsi, difficilmente corrisponde alla realtà.


Sapere di non sapere è l’attitudine più saggia che si possa esperire. Chi crede di sapere, non indaga, non conosce, non sperimenta, non scopre, non si fa domande e, quindi, rimane fermə. Se noi pensiamo di avere la verità in mano, ci inganniamo da solə, poiché non ci diamo la possibilità di scegliere tra varie alternative. Io leggo molto perché ho bisogno di ricercare certezze e, in qualche modo, di ritrovarmi in quello che succede nel mondo; penso di reperire tra le righe la spiegazione ai miei dilemmi più profondi, ma la verità è che lo faccio perché vivo costantemente nell’ignoto. Ma in questo ignoto ho l’immensa possibilità di osservare, di scavare e di allargare i confini di ciò che era la mia conoscenza fino a un attimo prima. E di trovare una risposta pressoché esaustiva, non esime dal generare altri interrogativi. “Le domande non sono mai indiscrete; le risposte lo sono, a volte” cita il Colonnello Douglas Mortimer nel grande western di Sergio Leone Per qualche dollaro in più (1965). Questo è il mio modo per slegarmi da pregiudizi, che ingabbiano e rendono poco liberə: essi finiscono per falsificare la nostra percezione e, di conseguenza, la visione del mondo che abbiamo risulta distorta. L’alterazione percettiva si trasforma in realtà – la nostra realtà – e così il pregiudizio si rafforza.


Non pronunciarsi quando non si sa significa saper riflettere e analizzare. Ponendoci nella condizione di non sapere, astenendoci dal giudicare, saremo più curiosə e più stimolatə a comprendere. Poi, magari, avevamo ragione. O forse scopriremo qualcosa che arricchirà le nostre vite.


Federica Biffi


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