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  • Immagine del redattoreFederica Biffi

Il costrutto di genere come questione politica

Trigger warning: quello riportato di seguito

è il mio punto di vista (polemico) sulle questioni di genere.

Non si tratta di un assunto universale.


Negli anni 70 durante i gruppi di autocoscienza le donne si riunivano per discutere dei propri problemi e delle proprie esperienze personali. Questi problemi stavano diventando una questione non più solo personale, ma che apparteneva alla collettività. L’idea alla base è che, se una persona è vittima di violenza per qualsiasi motivo, il problema diviene della società, incapace di educare al rispetto e all’accettazione della libera espressione altrui. Dunque, solo cambiando politicamente la comunità si potrebbe ridurre la possibilità che episodi simili si verifichino abitualmente.


Questo lo sosteneva Carol Hanisch, quando, in quegli stessi anni, in un testo pubblicato su Notes from the Second Year: Women’s Liberation (1970), si leggeva: “Il personale è politico”. Per spiegarlo meglio si può dire: “Una delle prime cose che scopriamo in questi gruppi è che i problemi personali sono problemi politici. Non ci sono soluzioni personali in questo momento. C’è solo un’azione collettiva per una soluzione collettiva”.


Carol Hanisch (1942), attivista e saggista statunitense


In Italia, per esempio, ancora oggi è necessario ottenere una diagnosi di disforia di genere - tradotto bisogna dichiararsi ‘sofferenti’ o comunque provare un disagio a causa della percezione della propria identità di genere diversa dal sesso biologico - per poter accedere alla terapia ormonale (per altro, come eventuali operazioni, cambio del nome o del marcatore di genere è richiesta la sentenza di un giudice per confermare la legittimità della sofferenza). In realtà, il disagio percepito non deriva dalla condizione di per sé (uno stato come un altro, si può dire), quanto dall’infattibilità di viverla liberamente. Ed è proprio qui che si trova la problematicità, perché è la società stessa a indurre la persona a sentirsi ‘scomoda’.


Ma la questione non si ferma qui. C’è uno strano ritornello, che torna spesso, che afferma la presunta ‘confusione’ delle persone non binarie o transessuali. Questo perché ci sono delle norme - costruite socialmente - che in qualche modo devono essere rispettate. “Sappiamo che l’aderenza alle norme sociali è un fattore cruciale per una vita lavorativa, sociale e affettiva soddisfacente”, dice Jennifer Guerra in Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020). Se non ci si adegua, dunque, si rischia l’esclusione. Proprio per questo, come sostiene Maura Gancitano in Specchio delle mie brame (2022), “Vivere al di fuori del genere imposto non significa non sapere chi sei, ma accettare di dover tradire la struttura sociale per scoprirsi e fiorire”. Ecco perché il gender bender - ovvero trasgredire dal ruolo previsto dal proprio genere - dovrebbe essere dunque una questione pubblica. “Il tradimento è un gesto politico di desiderio, che rappresenta la possibilità di liberarsi dagli stereotipi e abbracciare la propria molteplicità di essere umano”, continua Gancitano nel libro.


Viviamo in una società che spinge per rivendicare i diritti delle persone, ma che trova resistenze. Per fare qualche esempio, è recente la bocciatura da parte del Senato della proposta di utilizzare un linguaggio inclusivo nei confronti delle donne; di fatto, non è passato l’emendamento che proponeva di introdurre la declinazione al femminile nelle comunicazioni ufficiali (anche se, a dirla tutta, mi pare si tratti di grammatica e di concordanza di genere). Inoltre, qualche tempo fa il Ddl Zan, il disegno di legge che si prefiggeva di punire i reati d’odio “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità”, è stato affossato. Dopo essere passato alla Camera, a ottobre 2021 è stato interrotto al Senato che con voto segreto ha acconsentito alla “tagliola”, rimandando la discussione e costituendo di fatto una bocciatura dello stesso. Tali tematiche sono esplose poi sul web e sui social, generando discussioni - pubbliche - con visioni disparate relative all’argomento.


Ancorarsi o evolvere: il “troppo” politically correct


La società, come è evidente, è attraversata da conflitti e interessi divergenti; la funzione della politica dovrebbe dunque essere quella di mediare. Le questioni di genere, tuttavia, si celano dietro svariate giustificazioni; si ignora, a questo proposito, il fatto che, dato che sono costruzioni sociali, ci sia anche la possibilità che queste vengano smantellate, perché non più aderenti a un determinato ordine sociale. Ma non tuttз sono d’accordo, “e si nega così ad alcune persone il proprio diritto di decidere per sé e per il proprio corpo, esercitando il potere e l’autorità legittimati dal sistema patriarcale ed eteronormativo”. A partire dall’utilizzo di termini da parte dei detrattori come “la fantomatica ideologia gender”; in questo modo si sminuisce e passa l’implicito messaggio che si tratti di qualcosa di ‘non reale’ o che comunque non meriti attenzione.


Spesso accade che quello che non corrisponde a delle norme, si allontana o si evita. “Ciò che non può essere capito o addirittura addomesticato con facilità viene sistematicamente escluso”, dice Jennifer Guerra. Eppure, sembra che qualcosa non torni: affermando l’inutilità di certe battaglie, si sta comunque prendendo una decisione di carattere collettivo. Qualcuno dice che c’è un’esagerazione del ‘politicamente corretto’; ma qual è la differenza tra il politically correct e una forma d’interazione gentile e rispettosa che veda l’altrə per quello che è e per ciò che vuole essere? Come sostiene Federico Faloppa (di cui consiglio la ricostruzione storica proprio in questo ambito) in Non si può più dire niente? (2022) “è proprio attraverso un bombardamento di articoli anti-politically correct nei più importanti media, che la censura è alla porte, che la libertà (di pensiero, di parola) sarebbe in pericolo”.


Talvolta si sente dire che “ci sono cose più importanti”. Io non so se è vero oppure no, perché non spetta a me stabilirlo; ma ciò che penso è che se alcune frasi in un dato periodo storico non suscitavano scalpore, allo stesso modo è miope pensare che quelle stesse argomentazioni possano essere replicate nel presente. Perché i tempi evolvono e, con essi, anche le strutture delle società. Le persone che si scocciano di sentirsi oggetto di pregiudizio e che non vogliono essere vittime di abusi, magari con l’aggravante che quel preconcetto è figlio di un dominio culturale, hanno tutto il diritto di manifestare il proprio dissenso. Anche se “si stava meglio quando si stava peggio”. Alcune esigenze sono sacrosante e conseguenti a cambiamenti della società; è difficile, non ci sono colpe e nessunə vuole togliere qualcosa a qualcunə, tutt’altro: è un arricchimento e la responsabilità è (anche) dell’opinione pubblica.


Federica Biffi


Fonti:

Carol Hanisch, Notes from the Second Year: Women’s Liberation, 1970

Judith Butler, Questioni di genere. Il femminismo e la sovversione dell'identità, 1990, Edizioni Laterza

Jennifer Guerra, Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà, 2020, Edizioni Tlon

Maura Gancitano, Specchio delle mie brame, 2022, Einaudi

AA. VV., Non si può più dire niente? 14 punti di vista su politicamente corretto e cancel culture, 2022, Utet


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