Abbiamo già affrontato le diverse terminologie inerenti alla precisa definizione delle persone migranti; oggi vogliamo trattare e osservare il flusso migratorio in Italia da una prospettiva di genere. Focalizzeremo, dunque, la nostra attenzione sulle donne migranti che valicano i confini delle rispettive madrepatrie per iniziare una nuova vita nello Stivale.
È bene sottolineare che le cause degli spostamenti possono essere infinite e svariate: da un lato c’è chi fugge da una nazione in guerra (sia essa da intendersi come un conflitto interno e civile o internazionale), piuttosto che da un Paese che non riesce a garantire il benessere e l’alimentazione della singola persona a causa di una forte povertà che penalizza tutta la popolazione e tutti i settori; dall’altro, c’è chi ha perso la speranza di credere che la propria terra sia in grado di offrire possibilità di crescita personale e professionale. Si posa, quindi, la propria fiducia nella penisola italiana per un futuro migliore, dignitoso e onesto.
Il desiderio di autoaffermazione sociale ed economica è questione dibattuta, ma tanto “si sa, no?, trovare lavoro in Italia è difficile per tuttɜ adesso, figuriamoci per le persone straniere appena arrivate!”. È noto che la situazione attuale lavorativa nella meravigliosa terra natìa di Maria Montessori, Alda Merini, Rita Levi-Montalcini, Liliana Segre, Samantha Cristoforetti, Teresa Mannino, Francesca Piccinini, Federica Pellegrini – potrei continuare all’infinito, ma non sarebbe mai abbastanza! – è precaria e instabile per lɜ cittadinɜ italianɜ, ma risulta essere una difficoltà insormontabile per chi non conosce affatto la lingua o la cultura italiana e che, quindi, spesso viene identificatə come ‘coləi che non può contribuire’ allo sviluppo del Paese. Purtroppo, dovuto alle conseguenze dettate dalla pandemia da Covid-19, questa sconveniente situazione ha aggravato drasticamente la disparità di genere. Tant’è che in Italia il calo dell'occupazione femminile durante l'emergenza sanitaria è stato il doppio rispetto alla media UE con 444mila posti di lavoro persi a fine 2020: su 101mila persone disoccupate, 99mila sono donne.
“Le disuguaglianze di genere, provenienza, età che in Italia si sommano a un problema di disparità geografica, e che il contagio da Covid-19 ha messo pienamente in luce, sono emerse in tutta la drammaticità”, afferma l’economista Marcella Corsi, coordinatrice di Minerva – Laboratorio di studi sulla diversità e le disuguaglianze di genere presso la Sapienza Università di Roma e tra le fondatrici della rivista inGenere, spiegando il problema della recessione femminile (più comune il corrispondente inglese shecession). Se si desidera approfondire questa tematica, è disponibile anche l’intervista radiofonica.
Per l’appunto, una donna straniera, a differenza di un ipotetico uomo straniero immigrato oltre a subire discriminazioni etnico-razziali e/o religiose (si pensi al grande dilemma del velo islamico, per esempio), può essere esposta ad un’ulteriore discriminazione socioculturale che l’allontana dal mondo del lavoro e che, pertanto, non le permette né di accedervi né di essere indipendente a livello economico. Ora, vi starete forse domandando cos’è ciò che la ‘trattiene’? Ebbene, la risposta è il famigerato lavoro di cura: cura della casa e dei figli, in inglese caregiving.
Infatti, la divisione dei ruoli è legata in particolar modo agli stereotipi e ai costrutti socioculturali di genere, che hanno da sempre visto il maschio come il Breadwinner, ovvero il capofamiglia: colui che mantiene economicamente la famiglia – figura tristemente connotata al maschile. Questo, implica che alla femmina spetta occuparsi dell’educazione e della crescita della prole, ma attenzione, non solo! Come se non bastasse, deve anche badare alla cura della casa. In pratica, DEVE tenere sempre pulito e in ordine, o ancora, DEVE cucinare, lavare, stirare, rifare i letti, lavare i piatti, fare la spesa... insomma chi ne ha più ne metta. Quindi, chi ha anche il tempo di lavorare? C’è ben altro lavoro (non pagato) da svolgere!
Per non parlare poi dell’abbinamento dello smart working e della temibile Didattica A Distanza (DAD) per le donne più fortunate occupate; su questa doppia fatica, ribadisce la Prof.ssa Corsi “si rischia di tagliare fuori ancora una volta una fetta importante della società che sta pagando da tempo il prezzo di decisioni miopi ed escludenti".
Quando si parla, però, di donne migranti, molto spesso si tralasciano particolari essenziali che caratterizzano, a volte, la loro quotidianità, quali le credenze socioculturali (talvolta imposte dalle culture di origine) di sottomissione o di atteggiamenti violenti subìti dal proprio partner, ormai percepiti come leciti e normali. Pertanto, diventa fondamentale informarle al loro arrivo in Italia circa gli aiuti esistenti e le eventuali tutele e soccorsi per uscire dalla violenza (eccone alcuni: 1522, Telefono Rosa, UNAR, 112 o 113).
In sintesi, si può pensare che l’immersione in una nuova cultura e “il processo migratorio possono aiutare le donne a cambiare mentalità e aspettative, poiché ci si rende conto che è possibile prospettare qualcosa di diverso per il proprio futuro, qualcosa di cui prima non si aveva nemmeno il coraggio di sognare. Ragion per cui, la migrazione può trasformarsi in un potente processo di apprendimento e autorealizzazione per le donne e in un momento di forte crisi per gli uomini” (Agnello Hornby & Calloni, La violenza migrante, Milano, 2013).
Talvolta, prendere le distanze da alcune credenze del paese d’origine può rivelarsi di vitale importanza, ma questo non deve essere interpretato come un tradimento alla patria, bensì come un adattamento e un’integrazione alla nuova società in cui si vive.
Ecco perché c’è bisogno di dare alle donne la possibilità di crescita e realizzazione personale e professionale.
Si vedano alcune proposte concrete e iniziative già avviate per promuovere la parità di genere nel mondo del lavoro in Italia, come il gender policies report.
di Martina Ailén García
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