Questo articolo è una rielaborazione del testo
“Madri nere figlie bianche: forme di subalternità femminile in Africa Orientale Italiana”
di Angelica Pesarini, contenuto nel volume “Subalternità Italiane”
(a cura di) Valeria Deplano, Lorenzo Mari e Gabriele Proglio, Aracne, Ariccia (RM), 2014.
Il patriarcato non ha effetti solo sul genere femminile.
Tuttavia, in questo articolo si fa riferimento alle conseguenze
dell'eteropatriarcato solamente sulle donne,
in quanto fa riferimento ad una particolare storia di vita.
Il termine “eteropatriarcato” indica quei sistemi sociali in cui l’eterosessualità e il patriarcato sono percepiti come normali e naturali, e in cui altre configurazioni sono considerate anormali e aberranti.
Storicamente, il corpo delle donne è stato usato dal potere eteropatriarcale per riprodurre la Nazione e per diffondere valori e norme sociali. La “normalizzazione” e il controllo sociale del corpo femminile sono stati ottenuti tramite un’enfatizzazione del fattore biologico e l’uso di categorie di identificazione binarie quali “genere” e “sesso”. Proprio a causa del differente valore economico e sociale attribuito al genere femminile, essere una donna in Italia tra la fine del XIX secolo e la metà del XX, significava incarnare una moltitudine di identità immerse in un sistema patriarcale, in cui il riferimento al biologico giocava un ruolo fondamentale. Basti pensare che tra il 1863 e il 1920 la mortalità femminile era superiore a quella maschile, specialmente nel primo anno di vita; meno bambine venivano riconosciute e l’aspettativa di vita per le donne italiane era di 34 anni. Ovviamente la classe sociale di appartenenza e lo spazio geografico costituivano delle varianti fondamentali per la costruzione di tali dinamiche.
In ambito coloniale, il potere maschile e il patriarcato si intrecciano ulteriormente, data la presenza di un altro elemento centrale: la “razza”. È importante notare che per “razza” non si intende una categoria biologica basata sulla varietà fenotipica umana, quanto una costruzione culturale che attribuisce a determinate differenze fisiche significati capaci di giustificare disuguaglianze socioeconomiche.
La prima colonia italiana in Africa Orientale è l’attuale Eritrea, costituita nel 1890. Gli uomini italiani che vanno in colonia hanno più di 16 anni e arrivano in Africa soli, poiché non sono sposati o hanno temporaneamente lasciato la famiglia in Italia. Perciò cominciano a nascere lз primз bambinз definitз, in gergo coloniale, “meticcз”. Dato il principio di patrilinearità vigente, lз figlз natз da unioni miste erano consideratз legalmente italianз, fino all’avvento delle leggi razziali. Tuttavia, il loro stesso corpo sfidava categorie essenziali nell’ordine coloniale come “identità” e “cittadinanza”. Per capire meglio il potere maschile coloniale eteropatriarcale e le ripercussioni sulla vita delle donne, vale la pena raccontare una storia importante: quella di Isabella Marincola.
Isabella Marincola nasce a Mogadiscio nel 1925 dall’ufficiale di fanteria calabrese Giuseppe Marincola e Askhiro Hassan, una giovane donna somala. Nel 1927, all’età di due anni, Isabella e il fratello Giorgio di due anni più grande, vengono tolti alla madre biologica e mandatз in Italia per essere cresciutз dalla moglie italiana di Marincola. Si crea così una configurazione triangolare di subalternità femminile al cui centro si colloca l’oppressione coloniale eteropatriarcale. Da un lato, in Somalia, Marincola vive una relazione con una donna africana, considerata un’amante, ma non certo una moglie né una madre in grado di allevare lз figlз ‘italianз’ di Marincola. Dall’altro invece, in Italia, c’è una donna bianca, la moglie-madre ideale, che in apparenza sembra rispecchiare perfettamente i principi di domesticità coloniale. Entrambe le donne, anche se in maniera diversa, sperimentano il controllo coloniale e patriarcale del corpo femminile, di cui la maternità riveste forse l’aspetto più prezioso, tanto che ad una Marincola ‘sottrae’ la maternità e all’altra la impone.
E infine abbiamo Isabella, una bambina italiana e nera, il cui corpo sembra essere costantemente fuori posto.
Wu Ming 2 e Antar Mohamed , Timira, Romanzo meticcio, Einaudi, 2012
Alla bambina viene tolta la possibilità di crescere con una madre nera, considerata inadeguata e non ‘civilizzata’ e le viene imposta una madre bianca, che esprime la propria “civiltà” picchiando e prendendo Isabella a frustate fin dalla più tenera età. Quando dopo molti anni Isabella incontrerà sua madre biologica in Somalia, ecco che si rivela l’effetto “mutilante” del dominio maschile coloniale per il loro rapporto: le due donne sono incapaci di parlarsi. Madre e figlia, infatti, hanno bisogno di una persona esterna che traduca e che ‘parli’ per loro, e tra loro, poiché non parlano la stessa lingua. Isabella non solo non conosce il somalo, la lingua della madre: non conosce neppure sua madre.
In un lungo dialogo, ricostruito in base ai ricordi di Isabella, la figlia pone alla madre tutte le domande tenute in serbo per anni, domande che in passato avevano ricevuto come risposta solo silenzi. Dopo aver finalmente sentito la voce della madre raccontare la propria verità, Isabella dice:
“(…) Ma ora che ascolto mia madre, ora che lei può parlare, mi rendo conto che devo accettarlo: sono figlia di una violenza, e lo sarei anche se i miei genitori si fossero tanto amati, come in un bel fotoromanzo. L’amore al tempo delle colonie è impastato di ferocia. Un pugnale affilato minaccia e uccide, anche se lo spalmi di miele. Sono la figlia di un razzista, uno che in tutti i modi ha cercato l’oblio per la sua avventura africana. Uno che con le sue bugie ha rovinato la vita di sei persone” (Timira, p. 375).
La biografia di Isabella ci mostra la complessità dei meccanismi di oppressione intersezionale di etnia e genere e gli impatti del potere eteropatriarcale sulla vita delle donne. Emerge anche il fatto che le donne non sono oppresse allo stesso modo e che alcune donne possano soggiogarne altre, secondo la posizione sociale in cui si trovano. È dunque fondamentale posizionarsi e prendere coscienza di sé, mettendo in atto pratiche riflessive che ci spingano e ci obblighino a riconoscere le logiche di potere e privilegio in cui operiamo.
Angelica Pesarini
Docente di Sociologia e Ricercatrice, attiva nelle lotte internazionali antirazziste.
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