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  • Immagine del redattoreLinda Bartolozzi

La cura universale come principio organizzatore della società

Definite nel Manifesto della Cura (The Care Collective, 2021) come “l’insieme di condizioni sociali, politiche, materiali ed emotive necessarie affinché la maggioranza degli individui e delle creature viventi al mondo possa prosperare congiuntamente al benessere del pianeta stesso”, le capacità e le pratiche di cura assumono forme diverse a seconda dei contesti sociali e culturali, così come dei vari aspetti della vita. Esse, infatti, non si limitano al lavoro svolto personalmente da coloro che si occupano dei bisogni fisici ed emotivi altrui, bensì si estendono alle capacità sociali che alimentano il benessere e il nutrimento della vita, dal livello interindividuale a quello globale.

Intendere la cura universale, non mercificata e solidale come principio organizzatore della società è un obiettivo tanto ambizioso quanto necessario, come dimostrato da decenni di crisi economiche cicliche, guerre imperialiste e catastrofi climatiche globali, le quali rivelano che la ferocia di un sistema fondato sull’incuria è dovuta all’intrinseca debolezza del sistema stesso. In un tale scenario, infatti, le politiche neoliberiste e le megacorporation hanno esacerbato le disuguaglianze preesistenti, sia all’interno dei singoli Paesi che nella relazione tra Nord e Sud del mondo, aggravando l’ingiustizia ambientale e le guerre, al contempo facilitando l’ascesa di regimi autoritari e delle retoriche ultranazionaliste. Di fronte ad una simile instabilità, incoraggiare il radicamento di un sistema fondato sulla cura permetterebbe di ripristinare, rinvigorire e rafforzare i sistemi di welfare, promuovere green new deal transnazionali, adottare alternative al mercato capitalista e coltivare una convivialità cosmopolita che possa includere legami interpersonali più ampi, che vadano oltre i limiti della cura familiare. Relativamente all’emergenza climatica, ad esempio, la pratica della cura potrebbe favorire il benessere ambientale attraverso lo sviluppo di strategie per la decarbonizzazione dei sistemi energetici e di supporti al processo di riforestazione, così come la creazione di green jobs.




L’esistenza degli esseri umani è profondamente contrassegnata dall’interdipendenza: essi dipendono reciprocamente lɜ unɜ dallɜ altrɜ per soddisfare bisogni emotivi, fisici, sociali ed economici. Tuttavia, l’importanza che il Nord del mondo ha storicamente attribuito all’indipendenza – connotata come maschile – ha fatto sì che la dipendenza dalla cura sia stata per lungo tempo patologizzata, ovvero associata ad un’idea di impotenza e passività. Questa visione distorta ha ostacolato il riconoscimento del potenziale di crescita che potrebbero sviluppare coloro che vivono una situazione di fragilità qualora abbiano accesso alle risorse adeguate per conquistare una propria autonomia. Se quest’ultima, nell’immaginario collettivo, è sempre stata associata ad un’idea di virilità, infatti, la cura e la dipendenza – spesso associate a tratti di fragilità – sono state presentate come femminili, giustificate dall’assunto che le donne ne siano naturalmente predisposte. Di conseguenza, la patologizzazione della cura si è combinata con la disuguaglianza di genere


Per di più, nel corso del tempo, le nozioni di comunità e di benessere collettivo sono state progressivamente sostituite da quelle di evoluzione e benessere individuale. In questo processo ha avuto un ruolo significativo l’industria del self-care: un settore economico in espansione che ha ridotto la cura a mero prodotto di consumo individuale, concentrandosi sulla produzione e commercializzazione di beni e servizi progettati per migliorare esclusivamente la qualità della vita del singolo. La priorità concessa agli interessi del profitto ed alla crescita economica ha decretato lo smantellamento inclemente dei sistemi di welfare, facilitando l’affermarsi di un modello dominante di organizzazione sociale fondato sulla competizione, piuttosto che sulla cooperazione. Si è così persa la capacità di dedicarsi alla cura dellɜ unɜ verso lɜ altrɜ, specialmente in situazioni di vulnerabilità e fragilità come, ad esempio, la  povertà.


Le criticità attuali della cura universale e il loro superamento

 

Il concetto di cura non è esente da criticità e controversie, per lo più riconducibili all’aspetto ambivalente di quest’ultima: se è vero che occuparsi delle necessità di qualsiasi forma di vita può essere stimolante, entrare in contatto con gli aspetti più fragili dei soggetti può risultare estenuante. Nel corso del tempo, infatti, il circuito di cura – inteso come la rete di legami tra persone a cui si può prestare cura, da cui si può ricevere cura e con cui ci si può prendere cura – si è ristretto e circoscritto principalmente alla famiglia, che è diventata l’infrastruttura di cura privilegiata della società. Tuttavia, come sottolineato dall’attivista Michela Murgia in Dare la vita: “La famiglia nucleare non può essere presupposta come unità di base della cura. Una società moderna, democratica e plurale dovrebbe strutturare i rapporti di affidabilità a prescindere dai legami di sangue e considerarsi tanto più evoluta quanto più l’affidabilità si estende a chi è estraneo al gruppo familiare”. Per questo motivo la cura – intesa come in relazione ai legami di parentela nelle forme attuali – risulta troppo spesso inaffidabile, inadeguata e ingiusta, condizionata dalla discriminazione tra il “noi” della parentela consanguinea e il “loro” privo di legami biologici. Eppure, prendersi cura dellɜ altrɜ non dovrebbe essere né discriminante, né escludente.


Appare dunque evidente la necessità di infrastrutture sociali che garantiscano risorse economiche e, soprattutto, il tempo necessario per la disposizione allɜ altrɜ, così da far funzionare e dare continuità al lavoro di cura, tanto a livello individuale, quanto a livello collettivo. Riconoscere i bisogni reciproci permetterebbe di sviluppare un comune senso di umanità e di condividere le paure legate alla fragilità, smantellando così l’idea di un distorto rapporto gerarchico tra chi offre cura e chi la riceve. 


Le comunità di cura si presentano come un nuovo tipo di infrastruttura sociale, in cui la priorità alla condivisione delle risorse – da quelle più tangibili (come gli attrezzi) a quelle più intangibili (come le informazioni) – e l’essere intrinsecamente democratiche rappresentano una priorità per il loro corretto funzionamento. Esse, infatti, ampliano la partecipazione alle istituzioni attraverso il municipalismo e una gestione cooperativa dei mezzi materiali e immateriali a disposizione, e sono fondate su forme di mutuo soccorso tra le persone che ne fanno parte, oltre che sulla rivendicazione dello spazio pubblico. Questi elementi rendono le comunità di cura contesti accoglienti, plurali ed eterogenei, tanto che impegnarsi nell’implementazione di queste ultime permetterebbe ai confini della responsabilità umana di espandersi oltre il tradizionale perimetro dell’etica, alla dimensione del tempo di allargarsi alle generazioni future, all’orizzonte dello spazio di estendersi alla cura del pianeta ed alla considerazione della specie di dirigersi in direzione degli altri animali non umani. Così facendo, sarebbe possibile contemplare il superamento del modello antropologico dell’individuo razionale e autonomo mitizzato dal thatcherismo e dal reaganismo, per approdare a un nuovo modello che, fondandosi sulla cura, faccia emergere la diversità e un nuovo assetto democratico sempre più inclusivo. 



Adottare un approccio di cura universale significherebbe riconoscere quest’ultima come capacità di cui tuttɜ, non solo donne o madri, sono potenzialmente in grado. Significherebbe costruire istituzioni predisposte allo svolgimento di funzioni e compiti che hanno a che fare con l’interesse pubblico, abbastanza ampie e flessibili da permettere materialmente lo svilupparsi di forme più ampie di cura in ogni piano della vita sociale. La cura universale, non mercificata e solidale rivela la strada per il futuro attraverso esperienze concrete. Essa rappresenta la pratica più radicale con cui opporsi al capitalismo predatorio ed estrattivista, affermando la possibilità di una società alternativa oltre quella esistente. Dopo decenni di indiscutibile ideologia del profitto, la rivoluzione della cura può rappresentare l’elemento di convergenza tra tutte le culture e le esperienze, offrendo un paradigma inedito che favorisca la creazione di un nuovo patto sociale, ecologico e relazionale.


Linda Bartolozzi

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