Il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein definisce il linguaggio come lo strumento di cui si serve l’uomo per analizzare il mondo. Per questo motivo, è possibile concepirlo non solo come un mezzo di comunicazione, ma anche come uno spazio in cui si riflettono dinamiche sociali di diverso tipo, tra cui quelle basate sul dominio, sulla prevaricazione e sull’esclusione.
In tale contesto emergono gli slur: degli epiteti finalizzati a colpire qualcunə data l’appartenenza di questə ad un determinato gruppo sociale ritenuto deviante sulla base delle norme dominanti. Per questo motivo, gli slur sono solitamente indirizzati a qualcunə sulla base di caratteristiche quali il genere, l’orientamento sessuale, l’etnia, ecc. Da qui, dunque, risulta evidente la presenza di un gruppo dominante – anche definibile come ingroup – che esercita e mantiene il potere su tutte quelle categorie che da esso sono escluse – definite anche come outgroups –, deumanizzandole, considerandole non degne di riconoscimento, dunque meno umane.
Per comprendere meglio il significato degli slur è possibile interpretarli come dispositivi linguistici di cui il gruppo dominante si serve per poter affermare la propria posizione di privilegio e operare un processo di privazione di tutte quelle caratteristiche necessarie alla definizione del concetto di dignità umana. Un esempio, infatti, è l’utilizzo di slur a stampo omolesbobitransafobico – come la f-word –, qui da intendere come una modalità che il gruppo dominante (tendenzialmente permeato da eteronormatività) utilizza al fine di escludere la comunità LGBTQIA+ dal raggiungimento della pari dignità sociale.
Secondo la filosofa Robin Jenshion, l’utilizzo degli slur è definibile attraverso tre componenti indipendenti fra loro:
L’essere il prodotto di un gruppo designante (ingroup): gli slur hanno lo scopo di attaccare un gruppo ben definito (outgroup), che esiste solo nel momento in cui precedentemente è stato designato un modello di normatività;
La componente espressiva: chi utilizza uno slur sceglie consapevolmente di far emergere il suo atteggiamento stigmatizzante nei confronti di un determinato gruppo;
La componente identificativa: chi utilizza uno slur sceglie di mettere in evidenza la percezione negativa che si ha del gruppo discriminato.
Nel caso della componente espressiva, secondo Jenshion, le scelte linguistiche che si decidono di attuare non sono mai del tutto prive di intenzionalità; rispondono, invece, alla necessità di riflettere in maniera esplicita e violenta la configurazione del sistema dominante. Da questo punto di vista, l’utilizzo degli slur provvede in maniera diretta a mostrare il processo di discriminazione e deumanizzazione dei gruppi sociali che li subiscono.
Come vengono utilizzati gli slur?
Un fenomeno che porta alla luce la presenza di dinamiche di potere è l’utilizzo di slur in modo estraneo al contesto in cui nascono, utilizzandoli con un’accezione diversa da quella originale e cambiandone il significato. Come definito da Giulia Zollino in Sex Work is Work (2021), lo stigma attribuito ad un determinato target group – come preciso dispositivo di controllo – non disciplina solo la condotta del gruppo sociale colpito, ma si espande nel suo complesso.
Nel linguaggio comune, un esempio che rende evidente la presenza del sessismo nella società odierna è il continuo uso di slur sessualizzanti finalizzati a colpire la condotta sessuale delle donne seppure in un contesto nè sessuale nè sessualizzato come, ad esempio, il posto di lavoro. È noto, infatti, come un simile utilizzo non solo sia in sé problematico, bensì quanto sia oltremodo discriminante nei confronti di determinati target group, che vedono il perpetuarsi della stessa gerarchizzazione che li considera meno meritevoli di rispetto e considerazione, riprodotta attraverso un linguaggio stigmatizzante.
Al contempo, le comunità marginalizzate hanno iniziato a riappropriarsi degli slur per autodefinirsi e rivendicare la propria libertà di esistere dinanzi alle continue discriminazioni a loro rivolte. Qui, lo scopo è quello di depotenziare il significato degli slur stessi al fine di non avvertirli più come un’offesa, bensì come un’arma di cui servirsi. Questo genere di processo mette in crisi le gerarchie e le dinamiche sociali: le componenti di violenza e prevaricazione tipiche degli slur vacillano e smettono di essere utilizzate esclusivamente da chi possiede i privilegi specifici della classe dominante.
Un esempio di riappropriazione e depotenziazione della componente discriminatoria del termine è quello della parola queer che, sebbene inizialmente avesse un’eccezione fortemente negativa – atta a delineare qualcosa che appariva strano, bizzarro, deviante, non conforme, not straight –, oggi è utilizzata come un atto politico di rivendicazione. Con il passare degli anni, infatti, la comunità LGBTQIA+ ha iniziato a fare propria questa parola e a depotenziare la componente offensiva del termine queer, al tempo stesso mantenendo il suo significato originale.
Attraverso l’analisi dell’utilizzo degli slur nel linguaggio quotidiano, dunque, è possibile comprendere come il potere non sia un concetto unitario e a sé stante, bensì quanto sia in realtà diffuso – una rete di forze priva di un centro – e che si mantiene attraverso la creazione di gerarchie che offrono a delle specifiche categorie sociali il privilegio di poterlo esercitare e mantenere.
Giulia Minelli
Editing di Erica Ruggieri
Fonti:
Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus (Einaudi, 1921)
Robin Jenshion, Slur Creation, Bigotry Formation: The Power of Expressivism (Phenomenology and Mind, n. 11 - 2016, pp. 130-139)
Chiara Volpato, Deumanizzazione. Come si legittima la violenza (Editori Laterza, 2011)
Giulia Zollino, Sex work is work, (Eris Edizioni, 2021)
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