In questo articolo si parla di uomo e di donna
perché le riflessioni sono basate
sullo stereotipo della suddivisione categoriale.
Innanzitutto, cos’è l’economia di genere? Partiamo da un presupposto: con la rivoluzione industriale e la nascita della teoria economica, si afferma l’idea della specializzazione sul mercato del lavoro, oltre che su quello della produzione. Quindi, ciascun Paese si specializza nella produzione del bene per il quale ha un vantaggio rispetto agli altri Paesi. Ma questo avviene anche all’interno della famiglia: l’uomo si specializza nella produzione, la donna si specializza nella riproduzione (ovvero, nel partorire e crescere figlз). Perché alla base di questa suddivisione c’è il pensiero cartesiano: l’uomo è razionalità, la donna è corpo. E non si equivalgono in quanto a valore, perché la ragione permette la proiezione, mentre il corpo è un vincolo.
Tanto è vero che, a un certo punto, la teoria economica racchiude le donne nella categoria dellз fragili, insieme a persone anziane e bambinз, in quanto non hanno la stessa produttività dell’uomo (e da qui originano molti temi con i quali ancora oggi stiamo facendo - letteralmente - i conti).
Quindi, dicevamo, la donna scompare dall’economia. E vi fa ritorno intorno negli anni Settanta del ventesimo secolo, quando la Scuola di Chicago prova a reinserire la figura femminile nelle equazioni. Ma come lo fa? Se ne occupa l’economista Gary Becker, che prima ancora delle discriminazioni di genere, si occupa delle discriminazioni razziali (con argomentazioni che ora potremmo definire quantomeno discutibili).
Ad ogni modo, il ragionamento di Becker suona più o meno così: quando una donna in carriera torna a casa dal lavoro, cosa fa? Ma chiaramente, si occupa della casa e delllз figlз. Cosa fa, invece, un uomo ogni giorno al ritorno dal lavoro? Torna a casa, si mette sul divano, legge un quotidiano o guarda la TV. È naturale quindi che la donna sia più stanca. E, di conseguenza, che non riesca ad essere produttiva quanto un uomo. E allora, è normale anche che venga retribuita di meno (perché ricordiamolo: il mercato è perfetto e quindi i suoi meccanismi non ammettono falle). Ecco spiegata la discriminazione di genere sul mercato del lavoro. E pensare che era così facile, no?
Gary Becker, economista statunitense e vincitore del premio Nobel per l'economia nel 1992
Qui è dove comprendiamo perché dobbiamo parlare di economia di genere. Non solo per riportare le donne al centro del discorso (e quindi delle politiche), ma anche per comprendere due concetti chiave. Da un lato, che le donne sono un capitale. Che studiano, che portano valore aggiunto quando guidano le aziende, che fanno aumentare il fatturato se entrano massicciamente nei board. E che quindi ignorarle è non solo ingiusto, ma miope e controproducente proprio in una prospettiva di efficienza. Ma anche che il loro lavoro di riproduzione è basilare per la società. Il lavoro di cura che le donne forniscono silenziosamente nelle famiglie è invisibile. Ma stiamo parlando di un asset che vale circa 11.000 miliardi di dollari che non rientra nel PIL (perché sì, anche il calcolo del PIL - come avrete forse intuito - è espressione del patriarcato!). E che, tuttavia, impegna le donne per una porzione imbarazzante del proprio tempo di vita.
Anche quest’anno, la International Labour Organization lo conferma: in tutto il mondo, non c’è un solo Paese nel quale gli uomini spendano lo stesso tempo rispetto alle donne in attività di cura non retribuita, ovvero occupandosi di figlз, persone anziane, casa, persone malate. Nemmeno un Paese. In Italia, per esempio, prima della pandemia, ogni donna spendeva oltre 5 ore in attività di cura non retribuita (gli uomini italiani? In media, meno di 2 ore al giorno). E a seguito della pandemia, questo carico (già imponente) è aumentato di altre 15 ore a settimana. Ore che si tolgono, quindi, al lavoro retribuito. E infatti, nel corso dell’ultimo anno, 3 posti di lavoro su 4 tra quelli che sono andati perduti erano proprio di donne. Strano, no?
E quindi, a cosa serve l’economia di genere? A parlare delle donne, del loro lavoro, a ricordare agli economisti ed ai policymakers che la discriminazione non solo è un’ingiustizia, ma ci costa (per la Commissione Europea, precisamente 370 miliardi di Euro all’anno). Ed oltretutto, che non ci fa crescere: secondo la Banca d’Italia, se il tasso di occupazione delle donne italiane in età lavorativa arrivasse anche solo al 60% (il 100% no, che poi sta male... ma attualmente siamo al 49%), il PIL italiano crescerebbe del 7%. Per avere un’idea, la crisi peggiore degli ultimi anni, ovvero quella dello scorso anno in cui il PIL italiano si è ridotto dell’8,9%, potrebbe essere quasi completamente azzerata se il Paese decidesse di puntare sulla forza lavoro femminile, potenziandone le opportunità di occupazione.
Ma come si fa? Sradicando il modello di welfare mediterraneo, che si basa sul lavoro di cura gratuito che viene fornito da tutte le donne della famiglia: zie, mamme, nonne. E riportando la cura nel luogo a cui apparterrebbe (visto che paghiamo le tasse), ovvero nelle mani dello Stato, che dovrebbe farsi carico di fornire quantomeno le attività di base di supporto all’infanzia, alle persone anziane e a quelle malate. E, contemporaneamente, eliminando tutte le barriere che fanno sì che le donne vivano con estrema difficoltà i tre nodi fondamentali del mondo del lavoro, ovvero l’accesso, la permanenza e la progressione di carriera. Penso, per esempio, al disegno di legge dell’On. Gribaudo sulle disparità salariali. O a quello del Sen. Nannicini sulla condivisione della cura e sulla genitorialità. E infine, ricordando che le barriere sono prima di tutto culturali, perché il patriarcato ed i suoi meccanismi sono ormai talmente radicati che spesso fatichiamo a riconoscerli anche noi.
Azzurra Rinaldi
Dirigente della School of Gender Economics - Università Unitelma Sapienza
Comments