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Immagine del redattoreErica Ruggieri

Un linguaggio inclusivo è possibile

Nonostante le continue battaglie dз attivistз e alcuni progressi scientifici e culturali a cui è stato possibile assistere negli ultimi anni, l'immaginario comune delle identità trans* è ancora colmo di stereotipi e pregiudizi che per niente rappresentano la reale esperienza delle persone che non rispecchiano e incarnano l'esatto modello eterocisnormato tramandato da generazioni all'interno della società patriarcale.


A fomentare le rappresentazioni di senso comune delle identità trans* contribuisce in modo particolare il linguaggio, mezzo principale cui è affidato il compito di confermare o rompere il suddetto immaginario. È anche attraverso l'uso di quest'ultimo, infatti, che può essere agita una delle forme più comuni e violente di discriminazione e stigmatizzazione all'interno della società: la transfobia.


Tra le varie configurazioni che essa può assumere, possono distinguersi alcuni particolari fenomeni transfobici di cui è importante essere consapevolз prima di rivolgersi a qualcunə e/o scrivere in merito ad essз, al fine di non perpetuare un comportamento violento. Tra questi: deadnaming, misgendering e depersonalizzazione – fenomeni quotidiani che è possibile riscontrare soprattutto nel comportamento dei principali media, che più di tuttз dovrebbero essere impegnatз a non essere attorз principali di comportamenti transfobici, e a rappresentare al meglio tutte le soggettività sociali nella realtà tanto quanto nella verità delle loro esperienze.


Un modo per scrivere in modo inclusivo, tuttavia, esiste. Tra questi, l’utilizzo dello schwa (ə corto per il singolare e з lungo per il plurale), come verrà fatto nel corso di questo articolo.


Prima di entrare nel merito, nota bene: negli ultimi anni si tende a preferire la definizione “trans*” (invece che transgender), perché è un prefisso che apre un campo semantico più ampio. Il suo scopo, e quello dell'asterisco che lo segue, è quello di essere un termine ombrello con lo scopo di racchiudere molteplici identità di genere (genderfluid, genderqueer, non binary, bigender ecc.).


Deadnaming e misgendering


Sul Cambridge Dictionary, il deadnaming è definito come l’atto di chiamare una persona trans* o una persona non binaria con il nome che non usa più, corrispondente al genere assegnato alla nascita.


Parallelamente, sempre il Cambridge Dictionary riporta il misgendering come l’atto di usare i pronomi sbagliati, o altre parole specifiche di genere, quando ci si riferisce o si parla a qualcunə, in particolare una persona trans*.


Che sia all'interno di una conversazione orale o scritta, all'interno di un articolo o di una qualsiasi narrazione, riportare un nome e/o un pronome ormai in disuso è considerato una forma totale di invalidazione dell'identità scelta, ed una forma altrettanto forte di violenza, che può essere fonte di diverse sensazioni di malessere, spesso riconducibili a patologie connesse all'incongruenza di genere quali, ad esempio, ansia e depressione.


Riportare il deadname delle persone trans* persegue il fine e l’idea secondo cui le loro vere identità siano quelle assegnate alla nascita: una convinzione totalmente errata, oltre che violenta e invalidante. Non solo, scrive Sam Riedel nel suo articolo Deadnaming A Trans Person Is Violence – So Why Does The Media Do It Any- way? : "Ciò rappresenta un processo sistematico di negazione alle persone trans* non solo della nostra identità, ma anche della nostra umanità."


Riportare il deadname delle persone trans*, così come usare consapevolmente o inconsapevolmente il pronome sbagliato per rivolgersi o riferirsi ad esse, è da sempre una pratica adoperata nel linguaggio colloquiale così come nell’ambito giornalistico e mediale. E benché sia importante riportare che non tutte le persone trans* si sentano a disagio con il vecchio o attuale nome anagrafico – essendo questo un personale processo di autodeterminazione della propria identità, diverso per ognunə – è tuttavia fondamentale essere consapevolз della problematicità di fenomeni come il deadnaming ed il misgendering quando compiuti da media cisnormati e con un’imponente risonanza.


La depersonalizzazione


Definita prevalentemente in Psicopatologia ed in Psichiatria come un tipo di disturbo dissociativo del sè, ovvero la persistente o ricorrente sensazione di essere distaccatə o dissociatə dal proprio corpo o dai propri processi mentali, la depersonalizzazione viene discussa molto meno in ambito sociale, all'interno del quale – secondo l'Enciclopedia Treccani – depersonalizzare significa privare una persona della propria personalità.


In Deumanizzazione: come si legittima una violenza (2011), la psicologa Chiara Volpato scrive: "Nelle situazioni sociali prossime al polo intergruppi, il comportamento dei membri di un gruppo verso i membri di un gruppo contrapposto è uniforme, accompagnato dalla tendenza a trattare i membri del gruppo estraneo come elementi indifferenziati di un'unica categoria. In queste situazioni si verifica, secondo Tajfel, una depersonalizzazione dei membri dell'altro gruppo, che può preludere a una loro deumanizzazione."


In altri termini, la depersonalizzazione è l'atto di utilizzare una o poche caratteristiche – spesso inventate, basate su stereotipi – per descrivere la totalità di una categoria di individui, tipicamente ritenuti opposti alla propria, come può essere interpretato il continuum ai cui poli vi sono le identità "cis" e "trans*". Significa, dunque, annullare la moltitudine di sfaccettature da cui una varietà di soggetti può essere distinta, e utilizzare in modo generalizzato pochi termini, frequentemente non rappresentativi, per uniformare diverse individualità caratterizzate da una stessa condizione o peculiarità.


È quanto spesso subiscono le soggettività trans*, vittime di un uso ancora molto comune di termini categoriali – utilizzati come sostantivi anzi che aggettivi – che riducono la loro persona al solo fatto di essere trans*.


TW: Transfobia – Per fare alcuni esempi, ecco citati alcuni titoli di giornale: La svolta choc nel Lazio: bagni per trans a scuola"(Il Giornale), The Danish Girl. Chi è stato il primo transessuale della storia (Focus), Concorsi di bruttezza: ecco il primo trans a vincere una competizione Miss America (Il Primato Nazionale), e ancora Bagni per trans all'Università, l'ultima invenzione del rettore (Il Tempo).


Diffusa tra i media e non solo, la depersonalizzazione è a tutti gli effetti una forma di transfobia di cui non si parla ancora a sufficienza, la cui dilazione nel farlo tarda sempre più lo sradicamento della stigmatizzazione a cui le soggettività trans* sono ancora oggi sottoposte e uniformate.


Evitare la perpetuazione di stereotipi e microagressioni


Di fenomeni problematici come il deadnaming, il misgendering e la depersonalizzazione si spera presto di assistere ad uno sradicamento in favore di forme sempre più inclusive e visibilizzanti di linguaggio, che possano dare voce e fare luce sulle persone trans* ed una rappresentazione che sia di loro veritiera. Vediamo come.


Tanto semplice quanto importante è evitare l'utilizzo di nomi e pronomi non più in uso. Soprattutto, se si vuole fare riferimento al passato di uno o più individui, è fondamentale tenere a mente il cosiddetto chosen name, così come il pronome di uso corrente. Scoprire la propria identità, per le persone trans*, significa prendere consapevolezza di parti di sè fino a quel momento inesplorate – senza dimenticare la fluidità del sentirsi e percepirsi – e riattualizzare un passato in cui quella stessa identità era nascosta o tenuta forzatamente "nell'armadio", può provocare una potente e violenta sensazione di disagio.


Non sapere i pronomi correnti (e corretti) non è una giustificazione per darli per scontati! Un modo per scrivere in modo neutro esiste. Senza dimenticare alcuni termini neutri per definizione – quali, ad esempio: individuo/i, persona/e, soggetto/i –; in italiano alcuni tentativi – tra cui l'uso della chiocciola (@) e della 'x' – hanno portato all'impiego – nello scritto – dell'asterisco alla fine della parola. Una soluzione, tuttavia, "che non può che limitarne l'impiego su larga scala: l'impronunciabilità", scrive in Femminili singolari (2019) Vera Gheno, sociolinguista, traduttrice e divulgatrice.


A questo proposito, è proprio Gheno che promuove e suggerisce l'impiego dello schwa (ə), ossia della "vocale indistinta che, nell'alfabeto fonetico internazionale, viene identificata con il simbolo della 'e' ruotata di centottanta gradi", da lei stessa definita una sperimentazione. L'uso dello schwa, infatti, non solo sdogana l’uso del femminile in molti contesti in cui il maschile ha sempre dominato, ma – afferma Gheno in un'intervista a MicroMega – "sostituisce il maschile sovraesteso quando ci si rivolge a una moltitudine mista e indefinita", quale – ad esempio – quella delle diverse soggettività queer e trans*.


Possiamo concludere con le parole della stessa Gheno quando dice che: "Tutto questo non ci dice nulla su come si evolverà la lingua nel futuro. Quello che sappiamo è che siamo di fronte a due inediti nella storia: il primo è che da qualche decennio in qua le donne hanno conquistato uno spazio che non avevano mai avuto prima. [...] E il secondo è che oggi iniziano a essere avanzate esigenze da parte di persone che non si riconoscono né nel femminile né nel maschile." E finché vi sono delle possibilità che possono evitare l'inutile e preponderante perpetuazione di stereotipi e microaggressioni come quelle tramandate da un linguaggio violento e non inclusivo, è bene che tuttз – media e comunз cittadinз – si adoperino per evitarle e valutare, invece, il giusto peso e la giusta forma alle rappresentazioni espresse e tramandate quotidianamente in ogni ambito.


Decostruire il genere è un percorso sicuramente lungo, che richiede una presa di consapevolezza non indifferente. Tuttavia, iniziare dal linguaggio è sicuramente un primo passo verso una visione più aperta e sensibile, per volgere finalmente uno sguardo verso le diverse sfaccettature di ogni persona.


Erica Ruggieri


FONTI


Chiara Volpato, Deumanizzazione. Come si legittima una violenza, 2011, Editori Laterza


Vera Gheno, Femminili singolari, 2019, Effequ













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